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Il profeta Muhammad (S) - Seconda parte

15:10 - October 02, 2023
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Iqna - La biografia del venerato profeta Muhammad (S) è conosciuta meglio di quella di qualsiasi altro profeta. Col passare del tempo e per effetto delle evoluzioni storiche avvenute, il libro celeste, la legge religiosa e persino la divina personalità dei profeti che lo hanno preceduto hanno subito notevoli alterazioni, le quali hanno, di conseguenza, reso ambigue le loro biografie

Il profeta Muhammad (S) - Seconda parte

 

L’Egira

L’anno in cui il sommo Profeta e i Baní Hàshim uscirono dalla “Gola di Abutàlib” era il tredicesimo della sua missione. In esso compí un breve viaggio a Taièf (città situata a circa cento chilometri dalla Mecca) e invitò gli abitanti di questa città ad abbracciare l’Islam. Gli ignoranti e i malvagi di Taièf si riversarono da ogni parte della città e iniziarono a ingiuriare e a prendere a sassi il Profeta; gli empi riuscirono alla fine a scacciarlo dalla città.

Tornò quindi alla Mecca e vi rimase per un certo periodo. Anche in questa città, come è già stato detto in precedenza, v’erano individui ignoranti e malvagi che gli erano fortemente ostili; di conseguenza, la sua vita era costantemente in pericolo.

I notabili della Mecca, ravvisando circostanze favorevoli, decisero nel corso di una riunione segreta (svoltasi in un luogo chiamato Dàrunnadwàh, l’analogo di un parlamento odierno) di eliminare il Profeta. Concordarono di scegliere una persona da ognuna delle tribú arabe e formare cosí una squadra che sarebbe dovuta penetrare nella casa del profeta e ucciderlo; questi empi volevano far partecipare tutte le tribú al delitto per mettere i Baní Hàshim (la tribú alla quale apparteneva il sommo Profeta) nell’impossibilità di vendicarsi. La partecipazione di un membro di questa stessa tribú all’assassinio avrebbe inoltre fatto completamente tacere gli altri.

Il progetto venne messo in atto e circa quaranta volontari nottetempo circondarono la dimora del Profeta con l’intento di attaccare la casa all’alba e assassinarlo. Tuttavia la volontà di Dio era diversa e il progetto fallí miseramente. Il Signore si rivelò infatti al Profeta, lo mise al corrente del complotto e gli ordinò di lasciare la Mecca ed emigrare a Medina. Il Profeta, informato Alí (as) dell’intrigo, gli comandò di trascorrere la notte dormendo nel suo letto e, dopo avergli fatto le ultime raccomandazioni, se n’andò.

Per la strada vide Abubàkr e lo portò con sé a Medina. Arrivarono nottetempo in una grotta del monte Saur. Dopo essersi nascosti nella grotta per tre giorni, proseguirono il loro viaggio fino a Medina ove la popolazione accolse calorosamente il sommo Profeta. Del resto, prima dell’Egira, alcuni dei notabili di Medina avevano incontrato alla Mecca il Profeta e si erano convertiti all’Islam; gli avevano inoltre promesso di appoggiarlo e difenderlo con tutte le loro forze nel caso in cui si fosse recato a Medina.

Nel frattempo gli empi, che avevano circondato la casa, la assalirono, trovando inaspettatamente Alí nel letto del Profeta; appena vennero al corrente della sua fuga si precipitarono fuori della città, ma tutte le loro ricerche furono vane.

L’insediamento del Profeta a Medina e le guerre del primo decennio dell’Egira

Il sommo Profeta Muhammad (S), fuggito dalla Mecca, si stabilí a Medina, i cui abitanti abbracciarono la religione da lui apportata e lo appoggiarono devotamente. Coll’arrivo del Profeta la città di Medina assunse un aspetto islamico, prese il nome di Madínat ur-Rasúl (Città dell’Inviato) in sostituzione di Iasríb e divenne la prima città islamica della storia. In essa circa un terzo degli abitanti erano ipocriti, falsi credenti; questi simulavano l’adesione all’Islam per timore della maggioranza musulmana.

Il sole dell’Islam iniziò a risplendere nel limpido cielo di Medina e la sua divina luce arrivò dappertutto, illuminando ogni cosa. Come prima cosa, trasformò in pace e serenità lo stato di guerra che da anni esisteva tra le due grandi tribú degli Aws e dei Khazraj. Illuminò poi i cuori dei membri delle tribú della regione, i quali, gradualmente, si convertirono tutti alla religione islamica. Ebbe poi un fondamentale ruolo nel riformare la società: l’applicazione dei precetti che venivano gradualmente rivelati da Dio al Profeta, estirpava ogni giorno una delle radici della corruzione e del male, sostituendola con giustizia e timor di Dio.

Gradualmente molti dei musulmani della Mecca, oppressi e torturati dagli empi miscredenti di questa città, abbandonarono le loro dimore per emigrare a Medina, ove vennero calorosamente accolti dai loro fratelli di fede. Il musulmani emigrati presero cosí il nome di “Muhàjirun” (emigrati), mentre i benevoli musulmani della città di Medina furono chiamati “Ansàr” (soccorritori).

Di questa celeste luce non riuscirono però a giovarsi le numerose tribú giudee che vivevano a Medina, nei suoi dintorni, a Khaibar e a Fadàk. Queste tribú, infatti (come abbiamo già detto in precedenza), nonostante avessero per anni annunciato agli Arabi la venuta del profeta Muhammad (S), si rifiutarono di convertirsi all’Islam, limitandosi a siglare un patto di non aggressione con i Musulmani.

I miscredenti della Mecca erano fortemente preoccupati della rapida espansione dell’Islam e diventavano sempre piú ostili nei confronti del Profeta e dei suoi seguaci; erano invero alla ricerca di un pretesto per disperdere la giovane comunità musulmana. I seguaci dell’Islam (soprattutto quelli che erano emigrati dalla Mecca), che si erano profondamente risentiti per il malvagio comportamento di questi malvagi miscredenti, attendevano a loro volta l’ordine divino che consentisse loro di punirli e liberare dai loro soprusi i fedeli (donne, bambini e inabili vecchi) che non avevano avuto modo di emigrare a Medina.

La battaglia di Badr, nell’anno secondo dell’Egira, fu il primo conflitto tra i Musulmani e i miscredenti della Mecca. Nel corso di questo combattimento, che si svolse nell’omonima piana (situata tra la Mecca e Medina), i fedeli mal equipaggiati e in numero di circa trecento affrontarono mille infedeli armati fino ai denti. La divina grazia donò però una brillante vittoria ai Musulmani che sconfissero pesantemente i miscredenti, i quali subendo enormi perdite (sia in uomini – morti, feriti, prigionieri – che in materiale bellico), fuggirono verso la Mecca.

Si narra che gli infedeli lasciassero sul campo di battaglia settanta cadaveri (di cui circa la metà era caduta per opera d’Alí) e settanta prigionieri.

La battaglia d’Uhúd, nell’anno terzo dell’Egira, vede di nuovo opporsi i miscredenti della Mecca, guidati da Abú Sufiàn, ai Musulmani: tremila infedeli (alcune tradizioni dicono cinquemila) partirono dalla Mecca e si scontrarono con settecento musulmani, guidati dal nobile Inviato di Dio nella deserta piana d’Uhud, nei pressi di Medina. All’inizio gli uomini del Profeta prevalsero, ma un errore commesso da alcuni di loro provocò l’assedio; i Musulmani vennero quindi violentemente attaccati e subirono pesanti perdite: lo zio (paterno) del Profeta, Hamzàh, morí martire con circa settanta altri compagni dell’Inviato d’Allah, per lo piú appartenenti agli Ansàr.

Il Profeta stesso rimase ferito alla fronte, si ruppe un dente e rischiò pure di rimanere ucciso. Uno dei miscredenti dopo averlo colpito alla spalla gridò: “Ho ucciso Muhammad (S)”, seminando il panico tra i Musulmani, che fuggirono tutti all’infuori d’Alí e qualcun altro, che rimasero a difendere il Profeta. Morirono tutti a eccezione d’Alí che con incredibile coraggio e vigore si batté fino alla fine e salvò cosí la vita dell’Inviato di Dio.

Verso la fine del giorno i fuggitivi dell’armata islamica ritornarono a fianco del Profeta preparandosi nuovamente a combattere. L’esercito di AbúSufiàn si accontentò però della parziale vittoria ottenuta e abbandonò il campo di battaglia per ritornare alla Mecca. Questi empi però, dopo aver percorso alcune parasanghe si pentirono seriamente di non aver approfittato della situazione per sconfiggere completamente i Musulmani, catturare le loro donne, i loro bambini e depredare i loro beni; si misero persino a consultarsi per riprendere le ostilità.

Nel frattempo però vennero informati che le truppe musulmane li stavano inseguendo per riprendere le ostilità; la notizia (che tra l’altro era fondata, poiché il sommo Profeta, dietro ordine di Dio, aveva mandato Alí con degli uomini a inseguire i nemici) li intimorí e in gran fretta fecero ritorno alla Mecca.

Benché i Musulmani avessero subito in questa battaglia gravi perdite, gli effetti della sconfitta furono proficui; i fedeli provarono infatti sulla loro stessa pelle le infauste conseguenze della violazione degli ordini del santo profeta Muhammad (S) e presero cosí un’importante lezione da questa spiacevole esperienza.

Le due parti si erano impegnate, alla fine della battaglia, a ritrovarsi l’anno successivo nel medesimo luogo per affrontare una nuova battaglia. Il Profeta, con un gruppo dei suoi compagni, si presentò all’appuntamento, cosa che non fecero però Abú Sufiàn e i suoi uomini.

Dopo la battaglia di Badr, i Musulmani si organizzarono in maniera piú completa e riuscirono cosí ad avanzare in tutta la penisola arabica, a eccezione della regione della Mecca e di quella di Taièf.

La battaglia di Khandaq fu il terzo conflitto tra i Musulmani e i miscredenti (i quali venivano guidati per l’ultima volta dagli infedeli della Mecca). In questo cruento combattimento, i nemici avevano mobilitato tutte le proprie forze e capacità allo scopo di annientare i Musulmani. Questo scontro è famoso nella storia col nome di battaglia di “Khandaq” (fossato) o “Guerra delle Fazioni”.

Dopo la battaglia di Uhud, i notabili della Mecca (il capo dei quali era l’empio Abú Sufiàn) avevano l’intenzione di dare il corpo di grazia al Profeta e ai suoi seguaci spegnendo cosí definitivamente la divina luce dell’Islam; istigavano perciò le tribú arabe ad aiutarli in tale impresa. Anche le tribú giudee, nonostante avessero concluso con i Musulmani un patto di non aggressione, contribuivano segretamente alla formazione di questo fronte antislamico, al quale, alla fine, si unirono, violando cosí il patto stretto con il Profeta.

Fu cosí che, nell’anno quinto dell’Egira, un possente esercito, composto dalla tribú dei Quraish e dai clan arabi e giudei, attaccò la città di Medina. Il Profeta, che ancora prima dell’attacco era a conoscenza dei piani del nemico, si consultò con i compagni sul da farsi. Dopo un lungo dibattito, si accettò la proposta di Salmàn il Persiano (uno dei piú nobili compagni del Profeta): venne scavato intorno alla città un fossato difensivo per impedire alle truppe nemiche di aggredirla.

Quando i nemici arrivarono alle porte della città non riuscirono a superare il fossato e furono cosí costretti a insediare la città. In quelle condizioni iniziarono a combattere con i Musulmani; l’assedio e la battaglia si protrasse per un certo tempo, ma alla fine, per effetto del vento, del freddo, della stanchezza degli Arabi idolatri (dovuta all’eccessivo protrarsi dell’assedio) e delle discordie nate tra i clan arabi e quelli giudei, l’assedio fallí e le truppe nemiche lasciarono Medina.

In questo conflitto Amr Ibniabdiwud, tra i piú rinomati cavalieri e celebri guerrieri d’Arabia, trovò la morte per mano del nobile e potente Alí.

Dopo la battaglia di Khandaq, i cui principali istigatori furono i Giudei, i quali collaborarono con i miscredenti arabi violando il tal modo il patto stretto con i Musulmani, il sommo Profeta, su ordine di Dio, s’impegnò a punire le tribú giudee di Medina. A tal proposito affrontò assieme ai suoi uomini diverse battaglie contro di esse, che si conclusero tutte con la vittoria dei Musulmani.

La piú importante di queste battaglie fu quella di “Kaibar”. In essa i Giudei disponevano di solide rocche, di un notevole numero di uomini, di abili guerrieri e sufficienti equipaggiamenti bellici. I Musulmani avevano invece dalla loro parte il grande Alí che, dopo aver ucciso il celebre, potente e coraggioso guerriero ebreo Marhab e aver disperso le truppe giudee, attaccò la famosa Rocca di Khaibar e, dopo averne staccato miracolosamente il pesantissimo portone, assieme alle truppe musulmane, la conquistò, sconfiggendo in tal modo i Giudei.

Con queste guerre, che terminarono nell’anno quinto dell’Egira, i Musulmani sconfissero definitivamente i Giudei dell’Hijàz.

Nell’anno sesto dell’Egira, il sommo Profeta inviò lettere a re e imperatori di diversi paesi (come lo Scià di Persia, il Negus d’Abissinia, il Re d’Egitto e l’Imperatore di Bisanzio) invitandoli ad abbracciare l’Islam. Egli concluse poi un patto di non aggressione con i miscredenti della Mecca, i quali firmandolo s’impegnarono, tra le altre cose, di non molestare e non torturare piú i Musulmani che vivevano alla Mecca e di non aiutare i nemici dell’Islam a danno dei fedeli del profeta Muhammad (S).

Questi empi però, dopo un po’ di tempo violarono il patto e fu cosí che il Profeta decise di conquistare la Mecca. Nell’anno ottavo dell’Egira attaccò, con diecimila uomini, questa città e senza alcun conflitto e spargimento di sangue la conquistò: gli idoli presenti nella Ka’bah vennero da lui infranti e l’intera popolazione si convertí all’Islam. Convocò poi i notabili della città (che per vent’anni si erano sempre dimostrati fortemente ostili nei suoi confronti ed erano stati sempre crudeli e ingiusti con lui e con suoi fedeli) e, senza fare loro il minimo sgarbo, con infinita magnanimità li perdonò tutti.

Dopo la conquista della Mecca il Profeta cominciò a ripulire i dintorni di questa città dalle ultime tracce di idolatria e miscredenza. A tal proposito affrontò diverse battaglie contro gli idolatri che ancora non si erano sottomessi, tra le quali ricordiamo quella di Hunain, che si svolse nell’omonima valle e fu una delle importanti battaglie che il Profeta affrontò in vita sua.

In essa dodicimila guerrieri musulmani affrontarono migliaia di cavalieri della tribú degli Hawàzin. All’inizio del conflitto i nemici presero un tale sopravvento che, a parte Alí (che era l’alfiere delle truppe islamiche e che combatteva davanti al Profeta) e pochissimi altri uomini, le truppe musulmane batterono in ritirata. Dopo qualche ora però, dapprima gli Ansàr poi gli altri Musulmani ripresero le loro postazioni, caricando vittoriosamente il nemico.

Al termine di questa battaglia i cinquemila prigionieri catturati dalle forze musulmane, vennero liberati per richiesta del Profeta, eccetto alcuni che spettavano {come schiavi} a quei pochi Musulmani che non se la sentivano di rinunciare alla propria quota, la quale venne acquistata dal nobile Profeta, che cosí riuscí a liberare il resto dei prigionieri.

La spedizione di Tabuk fu intrapresa nell’anno nono dell’Egira. Il Profeta inviò le sue truppe a Tabuk (alla frontiera dell’Hijàz e della Siria) perché correva voce che l’Imperatore di Bisanzio vi avesse concentrato delle truppe costituite da Arabi e Bizantini. Prima di questa spedizione le truppe islamiche avevano affrontato i Bizantini a Mutah (nei pressi di Tabuk) e in quell’occasione valorosi comandanti dell’esercito islamico come Ja’far (figlio di Abutàlib), Zaid (figlio di Hàrisah), Abdullàh (figlio di Rawàha) caddero martiri in battaglia.

Quando i trentamila uomini del Profeta raggiunsero Tabuk, il nemico aveva già lasciato il luogo. L’Inviato di Dio restò a Tabuk tre giorni e, dopo aver ripreso il controllo della regione, tornò a Medina.

Nel corso dei dieci anni del suo soggiorno a Medina, oltre alle battaglie ricordate, il Profeta condusse altri ottanta scontri armati. Partecipò in prima persona a circa un quarto di essi assumendo sempre un comportamento del tutto differente da quello adottato di solito dagli altri capi militari che si rifugiano in un luogo di assoluta sicurezza e si limitano solamente a impartire ordini ai soldati. Egli infatti partecipava attivamente alle battaglie che conduceva in prima persona e combatteva sempre sul fronte di guerra a fianco dei suoi uomini. E interessante però sapere che in tutte queste battaglie non capitò mai che uccidesse qualcuno.

La vicenda di Ghadir e la dipartita del Profeta

Nell’anno decimo dell’Egira il sommo Profeta si recò alla Mecca ed effettuò in questa santa città l’ultimo pellegrinaggio della sua vita (questo pellegrinaggio è noto col nome di Hàjjat-ul-Widà, che significa pellegrinaggio d’addio).

Dopo aver compiuto i riti del pellegrinaggio e avere impartito alla gente alcune necessarie istruzioni relative a questo importante atto di adorazione, rientrò a Medina. Durante il viaggio di ritorno, fece fermare la carovana in una località chiamata Ghadir. Ivi, dinanzi a centoventimila pellegrini, venuti da ogni parte della penisola arabica, il Profeta sollevò la mano di Alí e lo proclamò suo successore.

Con tale atto l’Inviato di Dio designò la persona che, dopo la sua morte, avrebbe dovuto guidare la società islamica, dirigerne gli affari, custodire il sacro Corano e la tradizione del Profeta e conservare le conoscenze e le leggi religiose; il profeta Muhammad (S) ubbidí in tal modo all’ordine datogli da Dio:

“O Profeta, comunica alla gente ciò che ti è stato rivelato dal tuo Signore e {sappi che} se non lo farai, non avrai compiuto la Sua missione” (Santo Corano,5:67)

Poco tempo dopo aver fatto ritorno a Medina il sommo Profeta passò a miglior vita.

 

Tratto da: Allamah Tabataba’i “Compendio della Dottrina Islamica”, Majma Jahani Ahlulbayt.

 

 

 

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